Pubblicazioni critiche

ADDO CUPI - Esposizione a Rimini anno 1913

– Esposizione a Rimini della “Dante Alighieri” – Sala “Viviani” – dal catalogo della Mostra - Raul Viviani fu un precoce – Ora non ha che 29 anni; tuttavia la sua maniera non è la prima, la sua maniera per la quale è universalmente conosciuto, quella che oggi ci fa ammirare, quasi stupire, sempre pensare, specie innanzi all’omogeneo complesso d’opere qui esposte. Questa maniera, che si può dire non un metodo unico di pennellata unita né di tecnica divisionista, ma un insieme ben composto e complesso delle due, che si compenetrano a vicenda e si associano e si legano e si sommano per rendere l’intero sentimento dell’artista, deriva da un’altra tecnica più sciolta, più libera e molto meno complessa, che tenne il giovane ancor fanciullo nello studio del vero, nella prima passione alla poesia dell’aperto, negli accordi iniziali delle musiche sempre nuove e solenni dei colori e delle linee semplici della natura. A quattordici anni dipingeva con inusitata bravura. A sedici anni incominciò a partecipare alle più importanti esposizioni nazionali ed estere con lusinghiere prove. Allora era un semplice amante di quanto è possibile ritrarre nell’attimo dell’osservazione, così come l’occhio ingenuo vede e come la tavolozza facile e piana consente. Ma il modo gli sembrò troppo pedestre, troppo comune; egli era giovane e sentiva tutta la possa della sua giovinezza sana e robusta. Bisognava procedere con passo saldo verso una via non battuta dai più, non essere uno della interminabile schiera, uno sconosciuto; e si rifece ad un tratto quasi d’improvviso, con una foga che ha dell’inverosimile, studiando sempre con rinnovato amore i classici, ma indagando e osservando acutamente i moderni, gli innovatori. E la sua fu da allora una pittura di eccezione, tutta singolare, personalissima. Ha le vibrazioni dei divisionisti, ma ha le pennellate larghe e lisce dei classici; ha il colore schietto, vivo, come risulta dal primo impeto del pennello, ma ha le velature, gli attenuamenti della riflessione e dell’indugio. E’ una maniera fatta dal complesso di tutte le altre, traendo il buono dove si trova pur di raggiungere la somma del piacere e del sentimento. Ed eccolo dopo le nazionali di Milano del 1906 e le internazionali di Faenza e di Torino del 1908, apparire con bel successo alla internazionale di Roma del 1909, di Bruxelles del 1910, di Milano e di Venezia del 1912, e di Napoli, di Roma, di Monaco di quest’anno. A Napoli il suo quadro “Presso il vecchio ponte” è stato acquistato dal Re; le ricche gallerie private d’Arte Moderna ” Bernet” di Buenos Aires e Pugliese Levi di Milano e “Gallina” ed altre possiedono suoi lavori notevolissimi. Tanta via già percorsa in tanto poche primavere!. Ma chi ha dipinto la “Penna di pavone”, la “Sera d’ottobre”, il “Vecchio canale” e tutto il complesso qui raccolto di varia e profonda pittura ben può essere giunto tanto innanzi. F.to Addo Cupi

ANNA FRANCHI – sull’Araldo dell’Arte del 15 agosto 1946

– Visita a Raul Viviani – Io ho sempre trovato una corrispondenza piena tra l’uomo, le sue parole, la sua vita e la sua arte. Diceva “io non so ciò che riesco a fare, perché i miei quadri piacciono; io dipingo perché nell’animo ho un bisogno, di rendere ciò che mi colpisce, mi alletta, mi affascina. Un albero, un fiore, una donna……una creatura comunque, un essere che vive e che dice qualche cosa di misterioso”. Poi un giorno il dolore lo afferrò alla gola e lo sospinse in altra terra ospitale, ed il pensiero si fece in lui più profondo anche più intenso. Nessuno di lui sapeva nulla, ma la tormenta che aveva abbattuto anche lui parve richiamarlo ad un dovere….. la sua terra era lacerata e il suo cuore di artista palpitava di pena. Ed ecco perché un giorno mentre pensiero, azioni, arti, tutto andava alla deriva, la voce dell’amico di un tempo, attraverso un filo mi giungeva quieta come sempre ma con una velatura di mestizia che faceva supporre una tormenta. L’età e le circostanze mi avevano impedito di vederlo nel suo studio poi come spinta dal dovere volli ascoltare le parole di lui dette al pubblico della Famiglia….. La sorpresa fu viva. “Ma che lo so?....” Sì che sapeva ormai, sapeva e diceva come in una coraggiosa sventura, della nostra colpa, della nostra sventura, della nostra debolezza : l’arte e la critica, la sincerità delle anime che cercano inquiete l’espressione della vita che vive, di ciò che sembran cose e son vite, la sisinestà di chi schiaffeggia il misero pubblico valendosi della forza che lo incatena, impedendo la reazione, la servilità di chi non osa in un modo qualunque porre ostacolo all’avvenimento sistematico dell’intelletto umano e con frasi fatte di parole, sbalordisce e non dice, pago di credere che veramente l’imbecillità umana dilaghi e solo pochi sieno gli eletti della comprensività. Bravo Raul! Avete detto. E allora, né la fatica né gli anni hanno posto ostacolo; sono andata verso di lui, e tra le quieti pareti dell’ampio studio, nel silenzioso raccoglimento del pensiero che ricongiunge, riedifica, spiega, conclude, ho sentito in me vibrare l’anima di questo artista nostro che è ritornato a noi nel più burrascoso periodo della storia; storia umana, storia dell’arte, e che con l’uguale serenità parla e dipinge e ricerca con la parola e col pennello quelle sensazioni che danno il palpito ansioso della verità delle anime degli artisti veramente sinceri. Queste mie parole non vogliono essere un’intervista, no io ho provato il bisogno di isolarmi da tutto quello che di convenzionale può avere una tale visita; ci comprendiamo troppo: l’artista e la vecchia amica innamorata dell’arte. Silenzioso, Raul mi pone davanti l’opera sua. Una ad una le espressioni delle sue intime sensazioni. E’ accanto a me un comune amico, vivace e colto; di tanto in tanto ci guardiamo: abbiamo tutti e due capito , ciò che il quadro dice. Raul sorride. Si, infatti, anche un fiore parla di una gloriosa nascita al sole, di una pena immensa, allorchè, reciso, muore circondato da una falsa atmosfera fatta di un artificio. Ed ecco che poche rose, belle e meste in un quadro ove l’armonia dell’ambiente par preparata ad accogliere quel respiro di infinita dolcezza che unisce in una sola ansietà l’anima degli uomini e l’anima di quelle che sembrano cose e son vite, vi danno una strana commozione. Chi vede la tecnica, il modo col quale l’artista scrisse questa sua sensazione, quando la commozione prende la gola? Quando di sente palpitare nell’anima un ricordo, un brivido provato, un turbamento, un rapido momento di commozione? Questa è la grandezza che fa amare un’artista, sia una pennellata rapidamente gettata sulla tela, sia una sapiente ricerca di linea, sia una tonalità quiete o violenta, sia, come diceva Fattori, un “troiaio” qualunque che ha scritto la sensazione che in voi fa eco, lo scopo è quasi raggiunto. Dico quasi, perché la perfezione non esiste….. forse nemmeno nella natura. Tutto è prova, tutto è ricerca del meglio. Il silenzio dello studio si popola di melodie……Sono le melodie della natura che solo l’intimo nostro ode, sono i ricordi che ritornano…….sono le ore di pena, di speranza, di quieto riposo che parlano, che rivivono….E’ il prato umido di rugiada, che annuncia il mistero della notte, è l’albero che beve nel sole la nuova giornata, è il fiore che si vede pensare e vi ispira la più elevata filosofia della vita: quella che v’insegna a saper morire. Quando un artista sa risvegliare tale sensazione vuol dire che ha fatto opere di valore. Raul Viviani ha in sé quella grandezza che non permette all’artista di dire ho raggiunto…..Ma nessuno, tra quei che sanno leggere, potrà dire che nell’opera sua manchi la commozione di chi vuol elevarsi fino ad esprimere quella grandezza della natura che fa parte del mistero. Non oltre il vero deve andare l’artista, ma afferrare, se può, l’espressione a tutti ignota della verità. F.to ANNA FRANCHI

SEVERINO PAGANI – sulla Famiglia Meneghina (Maggio.Giugno 1950)

– Raul Viviani - (omissis) Dirò subito che Raul Viviani è fatto per destare subito una grande simpatia; invece la sua arte non seduce subito; dapprima sorprende e, forse, sconcerta; poi persuade e alletta; in seguito affascina. E’ quello che sempre avviene quando l’arte non è pura impressione, più o meno felice, ma è anche meditazione, è tormento, senza tuttavia giungere alla esasperazione. (Omissis)……….. Il Viviani è stato in arte un rivoluzionario ed è tuttora un vero poeta; la sua pittura è sempre pura poesia. Inoltre non ama seguire la corrente; per questo si è fatto uno stile assai personale, pur rimanendo fedele ad una tecnica divisionistica; anzi egli è uno degli ultimi e più tenaci divisionisti. Gli ho chiesto perché si è conservato fedele a questa tecnica che i più ritengono ormai superata, ed egli mi ha risposto che per lui la pittura è appunto poesia e che, secondo il suo concetto, la poesia, la vera poesia, non è, non può essere, solamente impressione; è meditazione; è composizione; aggiungerò che, per lui, la pittura è anche musica. Di tutto questo mi ha persuaso con un esempio. Come in musica il compositore, in un momento di felice ispirazione, intuisce, sente, afferra e concreta il primo motivo, che formerà, poi, il tema dominante della sua composizione e quindi intorno a quel tema, crea, sviluppa, concerta e strumenta, con pazienza e con tenacia, il suo poema, la sua sinfonia; così il pittore, soggiogato da una visione, carpisce la prima impressione; la strappa dal proprio interno o dall’esterno che lo circonda; la domina se la appropria e li dà forma; ma poi la elabora e la sviluppa in un continuo sforzo di realizzazione, in una più o meno mirabile gamma di toni, come una vera e propria sinfonia di forme e colori. Ecco perché il Viviani fissa o crea, sempre, il primo abbozzo dei suoi quadri in colori vivaci abilmente impastati; ma poi li sviluppa in forme definitive, per lo più di buone dimensioni, con una tecnica divisionistica assolutamente personale. Non punti grandi o piccoli, non virgole o filamenti tanto cari al Previati; ma un’ingegnosità di circoli non chiusi, di archi, di curve, dove i colori schiettamente si susseguono, si rincorrono, si compendiano in un’armonia sorprendente, in una sinfonia, alle volte delicata, altre volte violenta, ma sempre di sicuro effetto. Per questo i quadri del Viviani non possono essere veduti in fretta; per questo non possono essere allineati alla rinfusa; esigono tempo e spazio. Puskin scrisse che il musicista compone un’aria mettendo insieme delle note in certe date relazioni; il poeta compone una poesia mettendo insieme in bell’ordine pensieri e parole, e il pittore un quadro mettendo in bell’ordine pensieri, forme e colori. Ecco; nell’ordinato divisionismo del Viviani, per chi ve li sa ricercare, si trovano appunto pensieri, forme, colori. F.to SEVERINO PAGANI

LEONARDO BORGESE – su Corriere della Sera del 18 ottobre 1952

– Mostre d’Arte – Dopo un discorso di Dino Bonardi è stata inaugurata, al Centro d’Arte San Babila, la mostra personale del pittore Raul Viviani, compiendosi il cinquantennio della sua attività in taluni periodi assai apprezzata e seguita sia dal pubblico italiano, sia da quello straniero. Viviani, infatti, esponeva con ottimi successi alle Biennali Veneziane, a Roma, a Monaco, a Bruxelles; e per diversi anni operò e insegnò nell’America del Sud. Fiorentino, ma di educazione artistica milanese, Raul Viviani con una numerosa serie di quadri, talvolta molto impegnativi e per la monumentale struttura e per le dimensioni, dal 1902 al 1925 circa fu quel che oggi si direbbe “Pittore d’avanguardia”, fu un polemico della forma, del colore e financo dell’espressione, fu insomma una specie di ribelle; o tale apparve se confrontato coi non pochi artisti moderati, pavidi, a produzione commerciale, di quel tempo così vicino e così lontano. E la sua arte segna dunque, come si suol dire un’epoca: l’epoca dei postimpressionisti, della Secessione, dei “selvaggi” o quasi selvaggi, dei divisionisti, dei post-divisionisti, dei prefuturisti e infine dei futuristi veri e propri. Viviani fu allora qualcosa di mezzo fra il divisionista e il “fauve”, o selvaggio, e cioè egli posava il colore sulla tela a colpi di pennello staccati; però questi colpi erano piuttosto larghi e tendenti al quadrato o al tondo, mentre i divisionisti ufficiali prediligevano normalmente la pennellata minuta o addirittura filiforme e capillare. Inoltre, Viviani non era un divisionista “scientifico”; vale a dire che mescolava i vari colori ottenendo tutto sommato dei toni composti all’antica, mentre il divisionista scientifico avrebbe dovuto limitarsi esclusivamente ai colori puri, quelli dello spettro solare. Quanto poi allo spirito o alla poesia, aggiungeremo che sebbene “fauve”, selvaggio impetuoso e magari alle volte, in certe gamme, acceso e violento, Viviani nel complesso, specie coi primi suoi saggi, apparve tuttavia cupo, romantico, amante dei crepuscoli e dei notturni teatrali. Una pittura, sicchè, assai personale e non facilmente dimenticabile; pur essendo, come dicevamo, anche caratteristica di tutto un notevole periodo e di tutto un gusto in Italia e fuori. Discutibile quanto si voglia; ad ogni modo però non priva qua di raffinatezza e là di vigoria o di un certo empito. Viviani: un temperamento. La sua pittura, se non altro, accettabile e ben considerabile storicamente. Le cose migliori qui esposte, in questa mostra – documento – paiono senza dubbio i paesaggi; per esempio l’Ottobre del 1924, che d’altronde annunzia nettamente un Viviani meno teorico e perfino eclettico, dalla tecnica più libera e fluida anche se meno costruttiva e personale. F.to LEONARDO BORGESE

GIUSEPPE CARTELLA GELARDI – su Il Nuovo Corriere degli Artisti del Novembre 1952

– Raul Viviani nel cinquantenario della sua attività artistica- …….omissis…… Affermatosi fin dal 1906, come artefice innovatore, si lanciò da quel suo remoto “Notturno” alle future realizzazioni di un’arte avveniristica, veramente come un’improvvisa emersione di speranza da tenebre antelucane – una promessa! – verso la luce di aurore non ancor nate, ma intraviste agli orizzonti già varcati dai grandi astri Segantini, Previati, Pellizza da Volpedo ecc. che una nuova tecnica divisionistica sforzavano universalmente al raggiungimento di una superiore spiritualità pittorica fatta solo di pura luce; pittore d’avanguardia polemico della forma del colore e perfino dell’espressione, ribelle ed inquieto novatore spregiante l’ottusa ortodossia dei “pompiers” del tempo. Non poche tele del Viviani, talvolta assai impegnative per dimensioni e struttura quasi monumentali, riuscirono ad imporsi (nelle assise internazionali, Bruxelles, Monaco, Biennali veneziane) al pubblico ed alla critica, non soltanto per la salda costruzione e tecnica rinnovellante, ma anche per quell’originale afflato lirico che rivelava, nel pittore, il poeta filosofo, cioè l'artista capace delle più ardue sintesi. ……. Omissis…… Viviani nella sua arte, non mosse collo né piegò sua costa durante le seguite varie e discordi esperienze di congreghe cenacoli botteghe e più o meno famigerati “ismi”. Non mutò mai, pur sempre evolvendosi: romantico son nato e romantico morirò tenne a dichiarare nel 1937; ed era il suo – quale dura tuttavia – un romanticismo non soltanto espressivo, ma psichico, dell’anima profonda, congenito e perciò stesso immutabile: un bontempelliano realismo magico, quasi, trasferito dal campo della poesia in quello della pittura: “nuova realtà d’arte” ben dice il Bonardi ch’è verità sognata, fusione di fantasia e tecnica in un quid squisitamente lirico inverante le sue composizioni col valido vigore che fissa il segno e scioglie il colore calibrandoli esattamente nell’assieme del quadro; virtù del pennelleggiare che abborda e risolve tante opere, anche minori, con un vigore architettonico che domina il soggetto e lo stabilisce in accapi di sostanziale costruttività. Il che avveniva ed avviene perché l’artefice, pur fermo nella sua torre romantica che non crolla, mai ne murò le finestre; anzi le spalancò sollecito ai nuovi venti, sempre che una vibrante palpitazione innovatrice giudicò degna d’inserirsi nel magismo della sua arte intesa alle pure essenzialità pittoriche, quale sopra tutte, appunto, il divisionismo. Ed è questo, sembrami, l’argomento principale che va oggi approfondito in sede definitiva: la cinquantennale evoluzione, cioè, dell’artefice, divisionista a modo suo, dal “Tramonto” del 1902 al “Canal Grande” del 1952. Le scuole pittoriche – giova all’uopo ricordare – del complementarismo, del luminismo ed, infine del divisionismo, che , per diverse vie cercarono realizzare la massima luminosità possibile delle figurazioni, mossero da atteggiamenti essenzialmente intellettualistici, che trovarono lor ragione d’essere in scoperte scientifiche (iniziate dal Newton, approfondite dall’ Helmholtz e dal Lambert, sperimentate dal Mille) epiloganti, nel campo dell’ottica e dei colori, nella constatazione che due sostanze coloranti mescolate mantengono attive ed inalterate le proprie facoltà di assorbimento della luce; quindi ogni miscuglio implicherà maggiore assorbimento di luce, cioè maggior senso di nero, mentre col semplice accostamento di esse sostanze si avrà una luce più viva, in quanto ogni colore non potrà assorbirne che seconda la propria facoltà. Abolizione, perciò stesso degli impasti e delle velature; non più mescolanze di colori sulla tavolozza, ma loro distensione diretta sulla tela, accostati in punti o tocchetti o filamenti o perline, le cui scabrosità e compattezza si avvantaggiano anche da una maggiore rifrazione. Veniva, in tal senso, proceduta e sviluppata la scienza pittorica di Baldassare Orsini, scenografo del ‘700 (cfr. V. Mariani: l’Arte 1923), il quale da artista precursore, aveva nei suoi scritti primamente ragionato ardui problemi di prospettiva aerea, di rapporti fra colori, di separazione di colori puri, di luminosità di masse pittoriche, di smorzamenti graduali di colori nell’ombra senza scapito della loro luminosità, di pitture da vedersi in lontananza e di conseguenti degradazioni coloristiche in rapporto alle distanze, ecc. Di una simile tecnica non tardò ad avvalersi quella tendenza idealistico-sentimentale incline al misticismo, che, volendo reagire alle varie correnti veriste, si sforzava di oltrepassare il luminismo impressionistico per attingere un luminismo astratto più consono alla luce universale, fonte animatrice del creato. Superba aspirazione! Ma la maggiore chiarezza e la più intensa luminosità delle pitture così ottenute non sempre, però, riuscirono a superare le sottili insidie della nuova tecnica; chè il valore luminoso di un quadro non tutto dipende, invero, dalla luce che raccoglie e rimanda, ma anche dalle inderogabili leggi dei rapporti di chiaro e scuro, dei contrasti di colori (caldi e freddi, tersi od opachi), delle espressività ineffabili, ecc.; da quelle supreme leggi di armonia, insomma, dagli antichi perfettamente intese ed attuale. Ora, se alle accennate insidie potè sfuggire l’immenso Segantini, in quanto del divisionismo seppe fare una espressione inimitabile della sua arte personalissima, in virtù della propria possente genialità; se potè sfuggirvi il grande Previati – sagace teorico, anche, della nuova scuola nei suoi libri: “I principi scientifici del divisionismo” e “Della Pittura: tecnica ed arte” (Torino, 1906 e 1913) – dando alle sue opere un particolare significato di ideale misticismo, che pur assolve la sua pittura dalla manca di forma e disegno; se potè sfuggirvi anche l’egregio Pellizza da Volpedo, cui la nuova tecnica offrì risorse di vaporosa levità sentimentale ben adeguate alla traduzione della sua psiche in ineffabili ritmi coloristici… non poterono certo sfuggirvi gli altri minori seguaci, né i minimi a questi seguìti, i quali, volendo distanziarsi al tutto dalla tradizione, ignorandola o negandola, finirono con lo schiudere il varco agli odierni funamboli del brutto e mostruoso e nullo. IN SIMILE ERRORE NON INCORSE IL VIVIANI, riuscito invece ad inserire la tecnica divisionistica soltanto come nuova corda alla multìsona cetra del suo complesso musicismo pittorico. Divisionismo, si, ma senza aberrare nell’assunto aprioristico che consideri la luce ad ogni costo come fine della pittura, cui è, invece, soltanto mezzo per meglio esprimere la visione interiore dell’artista. Accettato il divisionismo come progresso di tecnica non elidente ma procedente i tradizionali mezzi pittorici, alcuni quadri del Viviani poterono esprimere luce (d’anima) perfino dal buio (dei colori), con magie di filamenti che disegnavano e modellavano costruendo con solidità espressiva le figurazioni, avvolgendole al contempo in un’atmosfera di diffuso crepuscolo che le idealizzava. Quanto alla tecnica – osserva il Borgese – egli posava il colore sulla tela a colpi di pennello staccati…. Piuttosto larghi e tendenti al quadrato o al tondo; ma non può dirsi, sembrami, che il pittore rilutasse alla pennellata anche minuta o addirittura filiforme e capillare dei divisionisti ufficiali, neppur rifuggendo a volte dai modi di Georges Seurat della schiera dei “pointillistes” francesi. E così, d’allora, fin oggi: una indeterminatezza che determina; una maestria sforza concreti significati al valore del simbolo, di un simbolo in cui non si rintraccia più la tonalità pittorica, ma vi si scopre la luce come elemento generatore di ogni coloritura. Profondamente instrutto della influenza reciproca dei colori e delle piazze luminose, mai, in Viviani, l’uso di una sola tinta come nei divisionisti assoluti; ma, essa tinta, sempre variata o macchiata o dirotta in modo che le relative piazze acquistino luminosità. NON DUNQUE UN DIVISIONISMO SCIENTIFICO esclusivamente limitato ai colori puri dello spettro solare, ma siffattamente personale da mescolare non di rado i vari colori, ottenendo tutto sommato, al dire del Borgese, dei toni composti all’antica. DIVISIONISMO ITALIANO SI’, MA SOPRATTUTTO VIVIANIANO, che assorbe e procede ogni tecnica affine per farne sostanza d’arte distillata al vaglio della più conscia tradizione. Evoluta e magicamente innovata sintesi trasfigurante. “ Il selvaggio, impetuoso ed in certe gamme acceso e violento – conclude il Borgese – appare tuttavia cupo romantico, amante dei crepuscoli e dei notturni teatrali. Una pittura, sicchè, assai personale e non facilmente dimenticabile; pur essendo caratteristica di tutto un notevole periodo e di tutto un gusto, in Italia e fuori. Discutibile quanto si voglia; ad ogni modo però non priva qua di raffinatezza e là di vigoria o di un certo èmpito. Viviani: un temperamento. La sua pittura: se non altro accettabile e ben considerabile storicamente.” Comunque, se i giovanissimi e già agonizzanti pseudo-pittori degl’innumeri “ismi” odierni tanto clamorosi quanto effimeri, si siano appena affacciati alla predetta Mostra della cinquantennale pittura di Raul Viviani, avranno certo constatato di quanta giovinezza può essere tuttavia capace l’artefice vetusto, che, spregiando idiote elucubrazioni di mutevoli mode ed oscene importazioni di mercanti d’arte venduti al più deforme o nullistico forestierume, sia rimasto e rimanga – come il Viviani – nei gloriosi solchi del genio italico….Considerare ad esempio, il “Novembre” del 1907 accanto al sopra citato “Ottobre” del 1924; contrapporre il “Tramonto” del 1902 alla “Campagna abanese” od ai “Dintorni di Abano” del 1952; raffrontare la “Venezia” del 1922 o la “Sinfonia Chioggiotta” del 1926 al “Motivo veneto” ad al “Canal Grande” del 1952; svolare indagando dal “Portofino” del 1925 o dal “Canale di Pesaro” del 1927 o dalla “Marina” del 1939 al “San Damiano” del 1944 o alla “Campagna marchigiana” od ai “Pini di Portorecanati” del 1951 od al “Lago di Lecco” del 1952; sondare il quasi senso della terra traspirante dall’”Autunno il Lombardia” o dal “Motivo Ligure” del 1937 o dalla duplice “Valcuvia” del 1940 e del 1948; cullarsi agli afflati georgici e bucolici svarianti “Sul rio della Plata” del 1933 o nel “Brolo” del 1938 fino ai “Pagliai” del 1951 ed a “l’Aia” del 1952; vagheggiare la “Gitana” del 1931 o le “Tre Grazie” del 1952 o “La Spagnola” del 1934 accanto al “Dolce sorriso” del 1951; aspirare il pittorico profumo delle “Margherite” del 1948 o dei “Fiori” del 1949 o dei “Gladioli” del 1950, commisto al più acuto aulire dei “Fiori esotici” e dei tanti “Fiori” e “Fiori” del 1951; disposare l’”Armonia” del 1921 all’”Armonia” 1948; …… procedere, insomma, a simili avvicinamenti, per contrasto di soggetti e lontananza di tempi, è come perseguire e rinvenire in ogni soggetto ed in ogni tempo l’evolversi prodigioso di una singolare arte figurativa, quasi nei modi ragionati da Jean Royère nel suo “Musicisme”, Albert Messein, Paris 1934 “Langage de l’espace vivant” ch’è “une conquete de l’art su la sensation”, “une immagination sanctionnèe per le rèel”; mentre quel simbolico ricordato “Pellicano” del 1920 pare se ne stia in diparte, gonfio annoiato sprezzante, a mal digerire e subito espellere le innumerevoli farneticazioni che hanno infestato l’agone artistico dell’ultimo cinquantennio. La “Poesia” del 1951, da simili accostamenti, risulterà presente nei suoi stadi anteriori in ogni preceduta figurazione del Viviani e si ridurranno in memoria anche opere a questa mostra assenti e non dimenticabili, quali le suggestive nature morte, che ne “Le zucche ed il fiasco” attinsero la perfezione, e “Presso il mare” e “Motivo adriatico” e “Traghetto veneziano” ed “Il Canale di Mestre” e “Spiaggia maremmana” e quella soave “Ninì” quasi plasmata d’intenti stupori, ecc.; poesia essenziale ed armoniosa, ispiratrice ed animatrice, substrato lirico ed alìgera virtù simbolica; la sola valida ad inverare l’Arte quale similitudine divina!......La favola bella di Raul Viviani, probo maestro innovatore, sagace critico d’arte ed immutabile galantuomo, si adempie così, nel cinquantennio della sua prode fatica, sotto il duplice segno di una nobiltà artistica e di una umanistica onestà, che dovrebbero risultare non soltanto di ammaestramento ma anche di monito alle ancora salvabili, se possibile, giovinezze dell’ultima imperante babele…….. omissis. F.to G. CARTELLA GELARDI

CARLO MARTIN – su Gazzetta Padana del 13 Dicembre 1960

– Alla Galleria Montanari la “personale” di un grande Maestro del pennello. I caldi colori di Raul Viviani rischiarano l’autunno ferrarese. – omissis ………..Ecco sono entrato e come d’incanto dimentico e freddo e pioggia e inverno per godermi la luce calda, riposante, festosa che si libera dai quadri di Raul Viviani. Raul Viviani è un nome che apparve nella storia dell’arte contemporanea sin dai primi decenni del ‘900. Pittore dotato ampiamente di mezzi espressivi non potè restare nell’ambito di quella tradizione che pur portava gli illustri nomi di Segantini e Previati, e volle e seppe raggiungere forme nuove con le quali esprimere le impressioni che il contatto con il mondo esteriore gli dettava dentro. Il divisionismo lo attrasse. Scompose e ricompose il colore sulle sue tele, nella ricerca attenta di risultati non solo nuovi (come purtroppo fecero altri suoi colleghi dello stesso periodo) ma anche validi su un piano umano e culturale, del lavoro di quei suoi primi anni (era stato allievo a Brera sotto la guida del grande ferrarese Giuseppe Mentessi) rimase per lunghi anni traccia evidente. E anche oggi se l’occhio indugia a osservare da vicino certe sue tele esposte in questa “personale” ferrarese troverà talora in un sovrapporsi un intrecciarsi di colori a tratti minuti, fini, quasi a virgolette, che ricordano le lontane esperienze. La carriera di Viviani nel mondo dell’arte fu breve e sicura. Ma se è vero che i paesaggi di Raul Viviani hanno, e non da oggi, fatto scuola non solo per la realizzazione tecnica ma anche per quel senso di “presenza” che essi sanno creare, è pur vero che il Viviani più intimo, più indiscreto e a nostro avviso più gustoso, è il Viviani delle “nature morte”. La Galleria Montanari allinea una serie completa di queste stupende “nature morte”. I soggetti sono molto semplici: un cavolo gonfio e superbo come un tacchino in amore, le lunghe lance bianco verdi dei cardi, lo squillante giallo-cromo della zucca, l’otre panciuto, la lucernetta della nonna. Ma come la fantasia dell’artista ha saputo trasformare tutto questo!. Ogni tela sembra racchiudere l’intera gioia del creato; c’è una immedesimazione profonda tra l’opera e l’artista, c’è un rapporto strettissimo tra oggetto e soggetto, c’è il crisma e la sostanza di un’arte che esce dal tempo, pur conservando le testimonianze di questa epoca. Per questo non ci interesserà sapere che il solito gruppo di pseudo-intellettuali rimasticherà l’amara cicuta dell’espressionismo superato “ e della mancanza di tematica sociale” e altre consimili fesserie così dicendo. Fatto si è che il pubblico dopo anni di intontimento intellettuale, dovuto alla massiccia campagna (interessata, e come interessata)! della mala genia degli “ismi”, non si lascia più incantare dalla siringa di questo anodino dio Pan, il quale può oggi soffiare sin che vuole nelle sue canne, tutt’al più, a far ballare ancora qualche satirello di provincia o qualche ninfetta in fregola di notorietà effimera, “c’è oggi nel mondo, diceva Charles Morgan, una gran quantità di gente che di quel che è avvenuto non ha capito nulla” e lo diceva nel ’48, ci pare che questa sua asserzione sia di piena attualità, C’è che ha confuso tra il bisogno di una rottura con la tradizione accademica ottocentesca, e il fine di un rinnovamento della pittura. La buona pittura, si abbia il coraggio di dirlo, è quella che è comprensibile, non quella che, imbottita di termini rubati alla musica, alle scienze e alla filosofia, deve ammantarsi di paroloni difficili per nascondere l’inesistenza di un contenuto. Non c’è tela di Raul Viviani invece che non susciti sentimenti, o stati d’animo nel visitatore. E’ una pittura sana, che percorre prestigiosamente l’intera gamma del colore, da quelli più accesi a quelli smorzati. Si potrebbe aggiungere ancora che Raul Viviani vive una seconda giovinezza attraverso le sue ultimissime composizioni magistralmente giocate in chiave romantica; ma sarebbe complimento sciocco e assurdo. Le tele di Viviani signorilmente presentate dalla Galleria Montanari, come è stato scritto, non “legano” con un’epoca, sono l’espressione di una personalità chiarissima, vivificatrice, uscita dal crogiuolo delle esperienze moderne, sempre più netta e definita. Dire Raul Viviani rappresenta un’epoca è forse cosa esatta, ma certamente non completa. Questa rassegna antologica ferrarese dimostra invece che Raul Viviani ha dato qualcosa alla nostra epoca pur uscendo da essa, pur precorrendo tempi e gusti, pur mantenendo in sé esperienze acquisite. I cieli di Viviani, le sue gonfie nuvole, lo smeraldo dei suoi prati, il trascolorare dei laghi resteranno nel tempo come esempio di un’arte vissuta con coscienza e affetto, simboli di una poesia che gli untorelli astrattisti non potranno mai cancellare dal ricordo degli uomini. F.to (C.M.) CARLO MARTIN

RAFFAELE PATITUCCI – su Resto del Carlino del 29 Dicembre 1960

– Una visita alla Galleria Montanari – La pittura di Raul Viviani – Non è facile parlare di un grande pittore di fama; almeno più di quanto non si possa di un pittore giovane, alle prime armi. Noi pensiamo che in un giovane artista si possa dire quello che si vuole, facendo persino il profeta. Non è così nell’altro caso. E perciò diciamo che non è facile parlare di un grande pittore senza assumere tutta la responsabilità di quanto si dice. E cioè che l’opera sua sia valida se lo è un anello della catena dell’arte quando abbia le qualità per rimanere ferma e segnare un punto nella storia di un popolo. Quando poi l’artista del quale si vuole parlare è Raul Viviani c’è davvero da ripetere che “fa tremar le vene e i polsi”. E perché non si potrebbe scrivere svelto un paio di cartelle, senza troppo sudare, tanto vasto è il materiale a disposizione e tanto autorevoli sono i giudizi espressi su di lui, ma perché ci pare che debba essere difficilissimo per chiunque e non soltanto per noi arrivare a una sintesi di giudizio sulla personalità e sull’opera del Viviani. Intanto, vogliamo dirlo a nostra edificazione, sappia il lettore che non siamo all’altezza di formulare giudizi originali su Raul Viviani. E quel che stiamo per dire è privo di autorità. Esso conta solo come fatto soggettivo e nient’altro. Per questo vogliamo subito affermare che di Raul Viviani accettiamo tutto ciò che egli dipinge. E lo accettiamo senza fare considerazioni vacue di periodi e di scuole e senza distinguere tra questo e quello; tra paesaggio, natura morta, fiori, figura, ecc. In particolare accettiamo ciò che espone in questa sua ricca ed eccezionale rassegna, alquanto antologica, alla bella “galleria d’arte Montanari di Ferrara. La quale galleria, anche questa volta, mantiene la sua capacità ospitale e lo spazio che ha per essere all’altezza di ogni situazione. “omissis” Diciamo anche che accettiamo la gran parte dei giudizi espressi da critici di valore, i quali da oltre mezzo secolo elogiano l’opera del Viviani considerandola quale giustamente essa è, l’espressione più viva ed umana, appunto, del nostro tempo così affannato nella ricerca di un attimo di pace. Di proposito non vogliamo fare riferimenti lontani e vicini a tendenze e maestri come vorrebbe taluno che dice di vedere rapporti tra il paesaggio di Viviani e quello di Tosi e come vorrebbero certi altri che vanno ricercando in Viviani i segni del Previati e dei divisionisti specialmente in quel suo virgolismo giovanile che è il “suo” divisionismo, in verità tutto personale e non solamente nelle sue prime opere. Noi diciamo che il rapporto con Arturo Tosi potrebbe anche esistere e se esiste non è certamente a carico del Viviani. Difatti il Tosi del secondo periodo ebbe inclinazioni verso l’opera del Viviani, di lui più giovane d’una dozzina di anni, e ne sentì intensamente la lezione specie nel paesaggio. Ed essi rimangono insieme a rappresentare la pittura romantica italiana che, appunto per merito loro indipendentemente da ogni impegno cronologico ufficiale, si riallaccia, oggi, ancora appropriatamente, attraverso la scapigliatura, la macchia toscana, il paesaggio romantico vero e proprio dei paesisti piemontesi e soprattutto dell’emiliano Antonio Fontanesi, all’opera di Eugenio Delacroix fondatore del romanticismo pittorico. Così a quel qualcuno che parla di un Viviani che si sarebbe fermato a un’arte “sorpassata”, credendo di dire chissà che cosa, noi rispondiamo che dal “Pellicano” esposto nel ’20 a Venezia a “Femmina” del 1960 esposta qui alla “Montanari” la continuità del Viviani è senza precedenti ed è senza soluzioni. Il che dimostra la validità di una pittura che come fatto artistico e come insegnamento è pienamente vitale, senza che i termini “divisionismo”, “impressionismo”, “postimpressionismo” ed altro abbiano più significato in questo grande Maestro che è, e tale rimane, l’ultimo protagonista di un’arte immortale. Raul Viviani, infatti è l’ultimo dei romantici europei. Con lui il romanticismo pittorico chiude il suo ciclo storico, dopo aver raccolto una nuova poetica: quella del nostro secolo. Raul Viviani è pittore di splendidi stati d’animo che egli esprime con esigenza estetica e spirituale moderna e contemporanea il cui contenuto è di notevole apporto alla storia della arte italiana ed europea perché s’inserisce nello svolgimento attuale della storia civile, del costume e della tradizione del vecchio continente, culla del diritto e della civiltà Cristiana. E questa è la nostra conclusione, dopo aver di proposito sottaciuto le tesi “naturalistiche” e “neoromantiche” e tralasciato quei grandi maestri italiani che in ogni tempo ed anche nel secolo scorso hanno sempre mantenuto il contatto con i grandi spiriti del passato. Raul Viviani non è stato e non è qualche cosa di mezzo fra il divisionista e il “fauve” o il selvaggio, e chi lo ha scritto è caduto in errore, ma è tutt’ora, come è sempre stato un romantico di buona razza il quale deve al ferrarese Giuseppe Mentessi la forza del carattere e il coraggio delle opinioni. Il suo romanticismo è un fatto interiore, un costume, una forma essenziale di vita, una nuova poesia. Diremo che è un fatto di valore universale nello svolgimento della vita italiana individuale e sociale di questo XX Secolo che è storicamente cruciale, forse, per il trapasso di un’epoca e il sorgerne di un’altra. Noi desideriamo che il costume di cui il Viviani discorre ed agisce con l’arte come un apostolo non finisca sotto la lavina e non perda il carattere umano che ha. ……omissis …….. F.to RAFFAELE PATITUCCI

LEONARDO BORGESE -l’Avanguardia del Primo Novecento su Corriere della Sera del 30 Novembre 1966

– Raul Viviani, un pittore che aveva del temperamento. – Auguriamo a Carlo Ludovico Ragghianti, auguriamo anzi a Firenze, auguriamo a noi stessi, di poter vedere presto la prima Biennale sulla nostra arte del Novecento “da recuperare”. Dovevano aprirla in Novembre; doveva riguardare gli anni dal 1915 al 1935; doveva essere il principio per un grande e serio “recupero” di artisti quali famosi o troppo famosi in vita e dopo invece obliati o tartassati, quali poco noti, mal noti o addirittura ignoti e invece degni d’onore o almeno d’attenzione. Sarebbe stato, insomma, un buon tentativo per far della giusta storia, raddrizzando una storta storia a schemi fissi che porta dal solito futurismo alla solita “metafisica”, al solito “Novecento italiano”, alla “Scuola romana”, a “Corrente”, all’astrattismo del “Milione” e che non tiene conto alcuno di altri movimenti e che – peggio ancora – non tien conto delle persone artistiche isolate, le quali pure esistettero, ed esistono. Può così darsi che entro quegli pseudostorici schemi passi uno stupido qualunque perché espositore – che dire?- a un’esposizione del “Novecento italiano”, mentre non passi affatto magari una specie di genio perché - che dire? - schivo di natura e non iscritto al P.N.F. e al sindacato. Il principio di Ragghianti appare dunque giustissimo. Sarà bene, tuttavia, che tenga a mente una cosa, specie per ciò che riguarda gli artisti 1900-1920: bisogna recuperarli, certo: ma cadremmo in grave errore recuperandoli com modernisti: se sono stati, se sono qualcosa, lo sono per quel che sono, lo sono in quanto magari salonisti, artisti ufficiali e artisti borghesi, in quanto magari “pompieri”; e in tali sensi debbono dunque valere, e in tali sensi possono dunque valere davvero molto più che tanti modernisti. Serva il preambolo per un breve ricordo del pittore fiorentino Raul Viviani (1883-1965) e della mostra che durerà fino al 5 dicembre nella Rotonda di via Besana, a Milano, presentata dall’assessore Lino Montagna e con ottima introduzione al catalogo di Giuseppe Silvani. Il qual catalogo offre pure una pure una scelta di giudizi critici che vanno dal 1903 al 1963, dal Secolo alla Martinella di Milano, da Vittorio Pica e Ugo Monneret a Carlo Carrà e Luigi Bracchi. Per conto nostro, avemmo più volte occasione di scrivere circa questo fiorentino divenuto milanese, questo bonario, casalingo e romantico poeta, questo quasi-divisionista e quasi espressionista pittore. La cui ingenua e impetuosa rappresentazione va di sicuro anche recuperata, specialmente per gli anni che corrono dal 1920 al 1925. Così, oggi non possiamo far altro che ripeterci. Ricordando che Viviani, allievo di Giuseppe Mentessi a Brera, esponeva alle Biennali veneziane, a Roma, a Monaco, a Bruxelles e che per parecchi anni operò e insegnò nell’America del sud. Che fu amico e seguace di Gaetano Previati, in quanto libero divisionista e soprattutto in quanto sentimentale e crepuscolare spirito. Che, quindi, con una numerosa serie di quadri, talvolta molto impegnativi, e per la monumentale struttura e per la dimensione, fu pressappoco fino al 1925 quel che oggi si direbbe “pittore d’avanguardia”; fu un polemico della forma, del colore, della luce e della stessa espressione che toccava non di rado il teatrale; fu insomma una specie di ribelle; o tale apparve, confrontandolo coi non poche artisti moderati, pavidi, a carattere commerciale di quel tempo così vicino e così lontano. Fiorentino?. Non diremmo. Milanese?. Si e no. Non sapremmo spiegar come, ma per il temperamento, oltre che per certa maniera, Viviani piuttosto sembrerebbe vicino ai livornesi divisionisti e “fauves”. La sua arte segna dunque un’epoca, come si suol dire. L’epoca dei postimpressionisti, della Secessione, dei “selvaggi”, appunto o dei quasi selvaggi, dei divisionisti, dei postdivisionisti, dei prefuturisti e infine dei futuristi, veri e propri. Viviani fu allora qualcosa di mezzo fra il divisionista e il fauve, o selvaggio. E cioè egli posava il colore sulla tela a colpi di pennello staccati: però questi colpi erano assai larghi e tendenti al quadrato – e usava certo il nuovo pennello della ditta Calcaterra quadrato “da impressionista”. - mentre i divisionisti regolari prediligevano la pennellata minuta o addirittura filiforme e capillare. Inoltre, Viviani, non era un divisionista “scientifico”; vale a dire che mescolava i vari colori ottenendo, tutto sommato, dei toni composti all’antica, quando il divisionismo scientifico avrebbe invece dovuto star contento ai colori semplici e puri, quelli dello spettro solare. Una pittura, comunque, assai personale e non facilmente dimenticabile. Pure essendo, ripetiamolo, anche caratteristica di tutto un notevole periodo e di tutto un gusto in Italia e fuori. Discutibile quanto si voglia pezzo per pezzo; ad ogni modo, però, non priva qua di raffinatezza e là di vigoria o di un entusiasmo, di un empito. Viviani: un temperamento. La sua pittura: se non altro, accettabile e ben considerabile storicamente. F.to LEONARDO BORGESE

GUIDO RUBETTI – su Il Corriere del Teatro anno 1915

– Un pittore nostro – Raoul Viviani - ……… Un giorno, finalmente, tinnirono anche per lui, fra il dileguarsi dei facili compatimenti e delle ancor più facili critiche aspre di amici e colleghi e di recensori artistici, le rosse note gioconde della vittoria. Egli fu, insomma, quel che aveva voluto essere con sì bel fervore, con tanta serena audacia, con così rara onestà di intendimenti; rara, perché sempre troppo costosa nella repubblica delle arti. Oggi, conta e può vantare parecchie e belle affermazioni, che non pochi suoi colleghi fra i più anziani, forse fra quelli stessi che un tempo si sbizzarrirono contro di lui, sono e saranno condannati a vedere e…….. pregustare soltanto nel troppo vago etereo regno dei desideri e dei sogni. Tutte o quasi le più grandi Esposizioni Italiane ed europee hanno accolto ed accolgono da alcuni anni le originalissime tele e i personalissimi disegni di questo industrioso e infaticato ricercatore. E ovunque e sempre egli ha saputo e sa farsi additare dalla critica più autorevole, dai buongustai e dal pubblico per la sua fresca originalità di pensiero, di colore e di linea. ………… A proposito di Viviani – Domenico Trentacoste, il grandissimo scultore nostro, in un colloquio che ebbe con Ugo Ojetti (marzo 1912) seppe dare in poche parole a proposito dei quadri ammessi alla Biennale di Venezia, un giudizio su Raul Viviani da fare inorgoglire artisti di ben più alta fama: cinque paesaggi di Raul Viviani, un divisionista nobile, vario ed espressivo: li abbiamo accettati tutti e cinque…… f.to Guido Rubetti

PIERO SCARPA – su Il Messaggero dell’Arte del 30 Luglio 1923

– RAUL Viviani – In quella interessante mostra nazionale “giovanile” di Napoli del 1912 che raccoglieva le nuove e migliori, energie artistiche, disciplinate in un movimento indipendente verso i fini più alti e verso il trionfo morale della grande arte, figurava nel comitato lombardo il nome di Raul Viviani a molti specie nel Mezzogiorno d’Italia allora sconosciuto. Come è noto la manifestazione di coscienza e di genialità, per il suo ingenuo carattere, riuscì ad attirare l’attenzione degli studiosi, degli amatori e della critica. L’anno seguente l’esposizione, di cui erano anima il compianto Achille D’Albore ed Edoardo Pansini, fu ripetuta, ma come sempre accade avendo voluto il comitato introdurre tra i giovani elementi, alcune vecchie e decrepite cariatidi, il successo si affievolì e per altre ragioni, che sarebbe ovvio ricordare e discutere, di esposizioni giovanili non se ne parlò più. Peccato! Raul Viviani dunque, organizzatore della prima mostra, volle essere espositore nella seconda, presentandosi con un “Notturno” che ebbe l’onore d’essere acquistato dal Re. Ciò valse a far apprezzare le sue doti di pittore anche nel centro d’arte ove non aveva egli ancora ottenuto cittadinanza. Allora il Viviani era un ricercatore di luce e di effetti attraverso quella tecnica puntinistica che, pur dando dei buoni risultati, denotava una fatica improba dell’artista votato a trattare il quadro più scientificamente che con spontaneità. Segantini, Previati, Pelizza, Morbelli, avevano fatto scuola, ma il loro divisionismo, venuto in seguito ad un lungo esercizio praticato precedentemente con la tecnica dell’impasto, serviva per raggiungere le vibrazioni mercè la forza del colore sapientemente distribuita in seguito all’acquistata esperienza dei valori cromatici. I loro seguaci, invece volendo ottenere immediatamente gli effetti ammirati e studiati sulle tele dei maestri, appunto per la mancata penetrazione delle qualità e della forza dei colori, si sono fermati nei limiti concessi agli imitatori i quali non sono riusciti a far di meglio che sovrapporre l’abilità meccanica alla sensibilità artistica individuale. Di questo difetto s’era appunto imbevuta l’arte del Viviani e le sue tele venivano al giudizio del pubblico dopo essere state tormentate da una miriade di puntini che al contrario di rendere la trasparenza disturbavano l’osservatore, facendo apparire ai suoi occhi il quadro nelle durezze pittoriche più urtanti. Tuttavia l’arte di Raul Viviani ispirata sempre ad un delicato senso di poesia, fino dai suoi primi albori ha rivelato un carattere ed una sensibilità del tutto promettente; e la promessa del giovane pittore, infattti, è stata mantenuta con degno onore di firma. Ho parlato del Viviani del 1913, cioè di quando già tre anni prima, con il suo quadro “Gli ippocastani” aveva ottenuto un successo notevolissimo alla mostra mondiale di Bruxelles e nel 1912 aveva esposto, con pari risultato, alla Biennale di Venezia i quadri “Poesia”, “Sinfonia autunnale”, ed il trittico “La parabola del giorno”. Ricordo che in quella mostra il regolamento concedeva ad ogni artista di esporre due sole opere. Per il Viviani, dato il carattere e la bontà delle tele presentate, fu fatta eccezione pienamente giustificata e meritata. Nel 1913 oltre alla giovanile di Napoli il nostro pittore si presentò, in una mostra personale, all’esposizione di Rimini, promossa dalla “Dante Alighieri” ed ottenne la “Medaglia del Ministero della Pubblica Istruzione”. Nello stesso anno la sua fama si confermava nell’esposizione internazionale di Monaco di Baviera. Nel 1914, nell’altra mostra personale ordinata al “Lyceum” di Milano, fu così pieno il successo ottenuto dal Viviani che tutti i quaranta pastelli espost i furono venduti, anzi, Leonardo Bistolfi, ammirato dell’arte del giovane artista, volle avere il privilegio d’essere il primo acquirente delle sue opere. Due anni dopo il quadro” Vecchio ponte” esposto alla mostra di Brera a Milano, veniva acquistato dal Re. Questi successi vanno aggiunti agli altri ottenuti a Roma nel 1909, alla Biennale Napoletana del 1921 e alle Quadriennali di Torino. Anche l’anno scorso, presentatosi in una mostra personale alla Galleria Pesaro di Milano, il Viviani ha avuto modo di accrescere la sua fama per l’incondizionata ammirazione di cui è stato fatto segno da artisti e critici. Una delle sue tele più significative “La spiaggia di Cornigliano” è stata acquistata per la Galleria d’arte della città di Milano. Commissario artistico del Comune di Milano per le belle arti, egli si adoperò perché il magnifico gruppo “Angoscia” di Ermenegildo Luppi esposto a Venezia, entrasse nella collezione del palazzo Sforzesco così da assicurare a quel museo una delle più belle espressioni d’arte dello scultore modenese. Studioso profondo dei fenomeni pittorici e visivi, ha voluto egli dipingere seguendo la tecnica divisionista di cui il “Pellicano”, esposto a Venezia nel 1920 è l’ultima espressione raccolta e ragionata, ma ancora stretta nella morsa della meccanica da cui subito dopo ha saputo liberarsi. Il tormento a cui l’artista s’è sottoposto durante gli anni dei suoi studi puntinistici ha rafforzato di nozioni il suo cervello, così che quando si è deciso di cambiar rotta ha trovato il fisico irrobustito da una sensibilità foggiata di virtù ed è riuscito perciò a risolvere in un primo tempo e senza sacrifici i problemi che gli imponevano la tecnica dell’impasto per ottenere luci e trasparenze. Oggi il Viviani si è miracolosamente rinnovato e per le ragioni già esposte io ritengo che questo rinnovamento, che per alcuni avveniristi potrà sembrare un regresso, sia stata la sua salvezza. Un pittore come Raul Viviani , che tutta l’arte propria ispira alla poesia più intima e suggestiva del paesaggio, non doveva né poteva restare un teorico. Tentare e studiare per risolvere un determinato problema di luminosità è bene, ma fossilizzarsi nella composizione più o meno adatta d’una ricetta per ottenere un risultato finale imposto da teorie e non dalla propria sentimentalità è un gran male. Per convincersi di ciò basterà esaminare con necessari raffronti i due periodi pittorici di Raul Viviani, apprezzabilissimo nel primo ma assai superiore nel secondo. Egli stesso deve aver riconosciuto che la nuova via seguita è la migliore, perché mai più è tornato di un passo indietro nemmeno con reminiscenze, facili adescamenti di artisti che hanno compiuto opera salda es incessante di analisi e di penetrazione come l’ha compiuta il Viviani. Nobile nella linea, solenne nella espressione e densa di contenuto spirituale è tutta la produzione del valente pittore lombardo il quale ama le profonde estensioni d’acqua, i vasti paesaggi e gli immensi cieli in cui il cobalto trasparisce dalla ineguale cortina di nubi. Egli si compiace in particolar modo di far risultare la prospettiva aerea ma senza abusare sulla variazione di colori; anzi, con miti passaggi di toni, il Viviani, che oggi tratta la pittura ad olio eliminando ogni spessore di materia colorante, riesce ad ottenere luce e distanza, trasparenza ed aria. Questo pittore risulta un mistico del paesaggio, un cantore efficace e sottile d’ogni sua bellezza serena o violenta. Lavoratore instancabile egli studia e produce, non con facilità perché le sue tele tutte, dalle più modeste alle maggiori proporzioni, raccolgono le più vive energie intellettuali e spirituali dell’artista che l’ha dipinte, ma con sicuro e rapido risultato, dovuto particolarmente all’esperienza,, che non è supina bravura, praticata in lunghi anni di fatiche e di dolori dal pittore fiducioso e tenace. Anche il pastello, come l’acquarello, il Viviani, tratta ora con tecnica piana e persuasiva la quale volge sempre più al sintetismo di forma e di colore. Il mare della Liguria, la laguna di Venezia, il paesaggio di Lombardia sono stati studiati con amore d’artista e sensibilità di pittore dal Viviani, il quale, per le sue eminenti virtù, fin dal 1912 è stato iscritto quale socio d’onore dell’Accademia di Milano. La sua arte, che non disdegna ricerca di particolari o di abbracciare larghi e profondi orizzonti, ha qualche punto di contatto con quella di Giuseppe Casciaro, distinguendosi soltanto l’una dall’altra per la intima melanconia da cui è soffusa quella del lombardo e dalla gioia della natura resa vivacemente dal napoletano. Entrambi però, il settentrionale e il meridionale, pur vivendo in regioni tanto differenti per luce e colore, amano analizzare e colpire, con la solenne grandiosità del quadro, i caratteri più intimi del paesaggio contenendolo nella sua espressione scenografica e cercando di porre in rilievo, con amoroso studio di dettagli, ogni qualità emotiva di esso che possa essere da tutti compresa e sentita. Ecco perché l’arte di Raoul Viviani è comunicativa ed è perciò sinceramente da tutti apprezzata. F.to PIERO SCARPA

G.L.L. su La Giustizia del 12 gennaio 1924

– Cronache d’arte – Lavoro sul vero – Le impressioni di Viviani (galleria d’arte Bolognesi) sono invece convincenti per il valore assoluto di certe realizzazioni rapide ed intense, immediatamente dal vero. E’ una riprova, per così dire, della sincerità d’ispirazione del Viviani: la prova che egli è vivo dinanzi alla natura che si rinnova alle sorgenti, che non lavora soltanto a ricomporre armonicamente le proprie opere nella intonazione minore e nell’accordo riposato. C’è in molti quadri una sensazione soprattutto: la sensazione del mare che si distacca dalla terra, che s’agita in un ritmo che ha provenienza ed echi all’infinito, che si muove inquieto e mutevole, un altro elemento là dove l’erba finisce. Si vede in una spiaggia marchigiana la linea del mare con le vele, un sogno di colore, semplice, ma che tutto esprime: e in qua sono i ciuffi di verde e i paletti di legno. E in alto sono nuvole gonfie; un mondo di vite diverse, vita dell’onda, vita del vento, vita lenta della vegetazione che cresce, espresso e rivelato con una vivacità di accenti in una chiarezza fondamentale che riempie il piccolo quadro di sé. Questa vitalità dell’immediata espressione, questa facilità della realizzazione diretta ci danno per se stesse una gioia: ci confermano anche la convinzione che Raul Viviani, giovane ancora abbia il dovere di rinnovarsi per i suoi quadri maggiori. A guardare, per esempio, il quadretto “Di mattina” si sente nella pittura di serenità intensa, la vera impressione, nel senso originario della parola: cioè la realtà che si imprime nel risalto di ogni parte, si imprime, così, tinta per tinta, senza che alla concretezza dei particolari l’artista possa sostituire una visione più vaga. In un’altra impressione marchigiana, di quella terra umile all’ombra dell’appennino e sul limitare del mare, si vedono delicatamente dal prato che è parte in ombra, emergere due stecchi fragili illuminati, innalzati al cielo; due piccoli stecchi, che sono tutta la gioia del pittore, lo spunto che è offerto agli occhi, che costringe a dipingere. Molto cielo ha dipinto il Viviani: e mai cieli coperti. Ha reso più volte, sempre più vivamente, quella chiarezza fonda, serenissima, che ci fa sentire l’atmosfera vellutata, come la si sente soltanto nei crepuscoli prima del plenilunio. La “Serata d’estate” è finita, nel colore pacato di tutto il cielo chiaro sopra il pendio molle: e altrove tutta la terra è in ombra, e la luce è diffusa per il cielo; una nuvola piccola splende, punto luminoso nella serenità e tante si stendono per il cielo sopra le colline a striature, nel cielo irradiato. Alcuni quadretti hanno già il taglio del quadro abituale al Viviani, ma sono pieni di un risonare di voci, quasi come un cinguettio di note affollato nelle piccole dimensioni e nella composizione severa. Nella “vecchia via” c’è anche una melanconia fondamentale, di soggetto oltre che di tinte; eppure una perfetta, evidente aderenza al vero. Che cosa se ne conclude? Che Viviani anzitutto ha una sensibilità pittorica sempre sveglia; e quindi che potrebbe portare più vicino alla propria emozione le proprie opere definitive. La massima forza di vibrazione,la densità di una creazione minuta e continua si trova in un “Afa d’agosto “ piena degli splendori delle macchie di verde al sole, e dello scintillio delle nuvolette vibrate, e ancora in un “Canale di Pesaro” che mi sembra dare l’affermazione più forte della sensibilità pittorica schietta e della piena capacità di risolvere nella freschezza coloristica la forma concreta; qui il contrasto dell’ampio molo bianco e della barca di colore sanguigno produce, quasi senza volerlo, una grandiosità di accordi e di proporzioni, e c’è il quadro, e non si può più muovere nessun elemento. Anche nella “Foce” c’è già il quadro e il quadro che può essere sviluppato in grande, con certe possibilità di espressione poiché ricco e multiplo è il contenuto di sensazioni accanto al senso principale dell’acqua che si getta nel mare; e il piano e la superficie dei flutti non sono nulla in confronto all’immensità aperta dei cieli. Viviani si era un po’ velato nella sua stilizzazione del quadro, come uno che vuol raccogliersi e parlare con voce tenue, non potendo esprimere la gioia e le gioie. In questa mostra dischiude la pubblico un tesoro: ed è, con il pubblico in impegno a nuove alte conquiste in arte. Viviani è dei poche che possano esporre vere impressioni da una parte e veri quadri grandi, degni d’esser grandi, dall’altra; ciò non toglie che egli debba con rinnovato sforzo far rifluire nella composizione la vena pura di questi flutti freschi e rianimatori. F.to G.L.L.

R.I. – su Rivista Pro Familia del 14 Aprile 1940

- ………….Romantico son nato e romantico morirò…………. In questo atto di fede, aggiunto a mò di chiarimento ad una presentazione delle sue opere, scopriamo la disposizione fondamentale del pittore e la caratteristica delle sue opere. E badate bene, l’onesta dichiarazione di Raoul Viviani, non ha nulla a che fare con le forme convenzionali, enfatiche e artificiose del romanticismo di bassa lega e coi sottoprodotti di questo movimento reazionario, che abbiam subiti per un pezzo, impastati di pensierini dolci e teneri, scaldati alla tremula fiammella di un sentimento sovraeccitato e fantastico. Il romanticismo di Raoul Viviani è tutt’altra cosa: è romanticismo puro, esteticamente inteso come fedeltà alla tradizione nostra, come verità ricca di passione, di contrasti drammatici da rappresentare in forma piena, efficace e vivente senza troppa soggezione alle regole pedantesche che privan di vita e di moto. E’ un romanticismo infine, quello di cui si proclama interamente seguace il nostro pittore, che riconduce l’arte sulle orme dei grandi maestri dell’Ottocento, alla intimità psicologica, espressa attraverso una malinconica sinfonia coloristica. Nativo di Firenze, fu sempre romantico nella vita e nell’arte: nella vita che egli trascorre schivo degli uomini e fiso ad un sogno di bellezza e di amore; nell’arte che per lui è sublime trasfigurazione della realtà. Anche per il titolo delle sue opere non tradisce la sua sensibilità di romantico. All’arte si fece interrogando i grandi maestri del passato e la natura dalla quale seppe trarre le sue preziose armonie coloristiche. Chi avesse la ventura di vedere qualcuna delle sue pitture, subito rimarrebbe colpito dalla loro freschezza non disgiunta ad una nobiltà di maniere. Ci s’avvede subito di trovarsi dinnanzi a espressioni di un’arte austera e ingenua, lontana da sintetismi e malaticce monocromie. La sua pennellata gustosa e garbata è fluente come la parola di un valente oratore che sa avvincere l’uditorio. Ma si badi bene di non chiedere alla pittura di Raoul Viviani eloquenza e grandiosità ingannevole: non vi contenterebbe. Se chiedete invece spontaneità di visione, freschezza emotiva, vi risponde subito con un immediato sentire, e come ben pochi sanno, vi comunica subito sentimenti che scava nel suo cuore. Guardate come illumina i suoi quadri: la sua luce assomiglia alle sue forme; è una luce senza strappi e senza zone sorde; una atmosfera piena e calda dove le sue grandi figure virili trovano l’aria per il loro respiro. Il suo occhio è sano, è l’occhio di un uomo che è avvezzo al sole, al vento, ai grandi orizzonti sereni. I personaggi del suo mondo pittorico nati dall’effusione affettuosa della sua anima, hanno tutti una propria ed inconfondibile vita in cui il lirismo del colore ne commenta i caratteri, sicchè colore, luce, composizione concordano con l’immagine ideale balenata nella mente dell’artista a formare una armonia mirabile di dipinta poesia. La sua opera non consiste solo in grandi composizioni e in una quantità di rapidi e gustosi monotipi, ma è pure ricca di ritratti che più manifestano la originalità del suo stile. I suoi ritratti hanno il calore della vita: il personaggio è colto dal vero nel suo carattere costitutivo che il colorito commenta con tenui e sottili accordi. F.to R.I.

P.I.A. – su l’Eco di Bergamo del 27 Maggio 1941

– La personale di Raul Viviani al ridotto della Permanente d’Arte P. Dante – G. Segantini, quando ricorreva al divisionismo pennellava di striscio sulle macchie di fondo complementare e secondo il verso dei piani che limitavano gli oggetti pittorici; Grubucy, Morbelli, Pellizza da Volpedo, Don Rescalli, picchiettavano puntolini, minutissimi o più larghi, grassi e marcati; Gaetano Previati adottò il sistema di filamentare alla lunga in andamenti orizzontali, verticali o di avvolgere circolarmente la superficie dei corpi tondi; Raul Viviani, che visse e vive nell’atmosfera del pittoricismo poetico di Segantini, Grubicy, Morbelli, Pelizza da Volpedo, si serve d’ogni forma di segno, in prevalenza di quelli a ghirigori continui, sovrapposti ed intersecantisi, fra i quali interpone come virgole ed accenti circonflessi, quelli necessari ad ottenere delle vibrazioni, che non saprei chiamare se non alternate, ed efficacissime a produrre l’illusione più adeguata e perfetta. Lavori ad olio o a pastelli riesce così a scomporre, a disintegrare la veste esteriore dei corpi, per ricomporla in massa coloristica, di maschia sobrietà, e offre il quadro di pesi e volumi di cortine e filtri liquidi, acquei, talvolta quasi gocciolanti. Lavori ad acquarello, ed eccolo a tingere e a sovrapporre i toni, per ottenere robustezza e solidità lasciando da parte la tecnica inglese, della macchia trasparente, alla prima, colla goccia ai piedi, divenuta classica anche da noi e tenuta in gran conto da: Sala, Graffonara, Ricci, Raimondi e così via. Gli è che mi pare padrone di ogni tecnica, e l’adatta come mezzo opportuno al tema e al risultato, rivelandosi subito un contenutista lirico; che all’occasione gioca di arditi spostamenti architettonici e prospettici, e imposta sagome di figura e maschere umane, sottoponendo l’anatomia e le proporzioni al principio plastico espressivo, tutto riducendo a blocco compatto sicchè pare pensi, sul dettato di Michelangelo, che tanto più vale di pittura, quanto più assomiglia a scultura. In “Dopo la Messa” le due figure di primo piano, per la continuità della linea che la circoscrive nell’ambiente, e la disposizione del fondo assumono imponenza di monumento, v’è un rapporto così stretto fra le donne e la chiesuola, che questa la si immagina colossale, per la cuspide di quel campanile che va oltre il limite della cornice, e ascende sempre più per le vie del cielo. Anime trasognate e fisionomie austere; pupille enormi che fissano Voi ma guardano nella segreta intimità della loro vita, occhi fissi di giudici austeri e l’esame della propria coscienza; e questo impongono a voi, a lume della fede, che regola imperiosa il loro spirito e di fronte alla quale non v’è transigenza! E v’è tutto un grezzo paesano, una ruvidità contadinesca e primitiva che vi rimanda agli albori del cristianesimo, e la poesia sacra primitiva, c’è un certo che d’impacciato, di macerato, voluto e reso con sapienza, che c’informa quanto l’autore fiorentino (di quella Firenze di Giotto e Masaccio, che sceglievano per santi ed apostoli figure di popolani e li rendevano solenni) abbia pensato che la fede più profonda trova albergo e fiorisce nella vita degli umili. La “Madonnina dell’orto” sta alla fine di un ciclo di riminiscenze; la “Ninna nanna” di Serafini echeggia intorno al più grazioso e soave sorriso della “Buona mammina” che gioisce cullando amorosamente l’adorato puttino. Quadro da citarsi come esempio centrale di quel modellato sommario ed efficace adoprato nell’impianto delle figure. Nei tre pastelli, la testa di signora, e la pellerossa; e nella figura con frutta al primo piano, ad olio, in marcato divisionismo a tono costante, l’impalcatura interiore si sente solida, mentre l’espressione deriva da una fugacità nervosa ed elegante, che nel contempo conferisce della grazia. Raul Viviani riassume eredità toscane, valori del modernismo e della attualità lombarda ed ambrosiana in specie, cultura vasta acquisita nel suo peregrinare nel mondo, coll’osservazione acuta; la memoria felice l’assimilazione potente. Molte opere sue, e parte di quelle che mostra qui, m’inducono a considerarlo il poeta dell’autunno. Una sottile malinconia, un senso patetico, sorregge la sua produzione. Egli è per natura tendente alla spazialità; anzi alla vastità. Nei suoi paesaggi all’acquarello ci sorprende tanto cielo di cobalto denso, che fa occhio da limiti remoti, dietro nuvolaglia ammassata e densa di vapori; inseguite i piani della lontananza, nella solitudine, e vi perdete in essa. Idea e frase diventano un armonico immediato; sempre, con più evidenza nelle nature morte; imbevute di luci fantasiose e delicate, o marchi o sfumi gli impasti (vedi gli orciuoli di terracotta con fiori o pizzichi e seghetti i piani rendendoli sfaccettati o trillati (vedi il “Matraccio con frutta”); sia che ci s’indugi a svaporare in dolcissimi rosei crespi, enormi corolle di fiori; sia che traduca le due ceramiche in pannelli morbidi che vi paion drappi o tappeti persiani. Il suo quadro è ben ponderato, più di quello che può non apparire; è sottoposto ad un rigore logico che rigetta l’artificio volgare e disciplina l’ispirazione; e forse perciò taluno non vuole riconoscergli il posto fra l’arte di attualità. Raul Viviani è un erudito, appassionato di musica, conferenziere, critico; ha tutti i numeri per esporre il sentimento con verbo signorile, pregio questo che gli consente di collocare in raccolte pubbliche e private quasi la totalità delle sue opere (alla Quadreria Reale: “Presso il Vecchio ponte”, “Mattino”, “Vecchie case di pescatori” – alla Galleria Moderna di Milano : “La spiaggia di Cornigliano” ed ottenere medaglie d’oro, come quella conferitagli dal Ministero dell’Educazione Nazionale per la mostra del 1913 a Rimini. F.to P. I. A.

RAFFAELE DE GRADA – alla RAI Radio Milano

- 21 Ottobre 1952 – RAI – Radio Milano ore 14.15 Rubrica Arti Figurative - Il Centro d’Arte San Babila onora i 50 anni di attività di R. Viviani. Un pittore che ha avuto il suo momento di vasta celebrità quando ancora non si dipingevano i quadri sulla quarta dimensione. Un pittore che apparve un tempo modernissimo, non tanto per il suo preteso divisionismo, chè in effetti la sua pittura non accettò mai in pieno quella tecnica e quella maniera; quanto piuttosto per la sua invenzione delle virgole sulle tele, grafite in maniera diluita, languida, piena di sapori crepuscolari. A noi coì abituati ad enumerare i varii elementi plastici che compongono un’opera, ci sembrano lontani questi tramonti, questi sospirosi quadri autunnali. A pensare al successo che ebbe questo “Pellicano” alla Biennale del 1920, questo grande romantico uccello che tiene tutta la tela, ci sembra ormai tanto lontano quel modo definitivamente disperso ormai dagli squilli garibaldini. Ma c’è un senso poetico autentico in questo “Ottobre” che si disperde magari nel vuoto di questa “Sinfonia Chioggiotta” che trionfò alla Biennale di Brera del 1926. Con la “Gitana” e “Le tre Grazie” c’è una sterzata selvaggia. Sono gli anni dell’avventura nell’America del Sud, documentata dal “Rio della Plata” e la £Spagnola”. Si sente il fascino di Zuloaga e di Fortuny, gli spagnoli maestri di quei paesi. Un’enfasi di meteora che si libra su una personalità languida, indulgente invece al crepuscolarismo, che riprende infatti con la più recente pittura di Viviani, quella che va dall’Autunno in Lombardia” del 1938, al “Motivo Ligure”, alla “Marina”, del 1939. Riprende in tinte più chiare, diciamo, e, in rapporto al nostro gusto, più moderno. I paesaggi della Valcuvia, di S. Damiano ed anche i fiori, sono composti a zone ampie di colore; nei fiori queste chiazze luminose sono assorbile in una materia vasta e varia. Una specie d’arrivo ai grandi sentieri della pittura d’occasione, del post-impressionismo. E’ questa che si espande in visioni indefinite della campagna marchigiana, veneta, lombarda; che è più formata nei fiori, più distinta nelle figure; la più recente pittura di R. Viviani pittore che rappresenta una parte non trascurabile del gusto linfatico ma autentico di una sensibilità che è stata nel nostro mezzo secolo. L’arte di Viviani è simile del resto alla letteratura e alla musica della parte più delicata di una borghesia che non ha voluto aggiornarsi perché credeva in ciò che amava. F.to RAFFAELE DE GRADA

DINO BONARDI – edizioni grafiche Suppi - Milano – 1944

- Anno 1944 ? – Dalla Monografia (ediz. Grafica Suppi – Milano) di Raul Viviani a cura di Dino Bonardi – La pittura di Raul Viviani ha figurato con originalità e personalità nel complesso dell’arte italiana fin dai primi decenni del 1900. E’ da ricordare che già nel lontano 1906 il nome del pittore toscano emerse come quello di un artista nuovo, dotato di caratteristiche sue, nella mostra internazionale organizzata per la grande esposizione di Milano. L’opera che richiamo allora l’attenzione era un “Notturno” in cui già si stampavano quei dati di poesia e spiritualità, fusi in uno stile e arioso e solenne, sulle cui direttive si svolse poi la personalità del pittore. Per un sentimento di obiettiva giustizia si deve richiamare, almeno per sommi capi, la strada percorsa in occasione di questa mostra riassuntiva della fatica di Viviani, mostra nella quale appaiono specialmente le opere recenti spremute da un incessante lavoro, da una febbrile ansia di estetica e poetica luce. Il nome di Viviani è ben ricordato come quello di un artista validamente operante nella alacre pattuglia dei pittori che vennero su nella scia dei Segantini, dei Previati, dei Pellizza da Volpedo e che credettero nel verbo divisionista non tanto e soltanto come espressione di tecnica luministica, e quindi ricerca di luce, ma anche come affermazione d’un arte tendente al raggiungimento delle mete superiori dello spirito e dell’umanità. Viviani era stato allievo dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano ma sulla scorta di quei grandi insegnamenti, di cui sopra si diceva, svolse ben presto la sua sensibilità agognante mete aristocratiche e serene, avida di risorgere, in quanto spirito creatore, da quella immensa natura nel cui grembo l’animo suo si abbandonava con sentimento di universalità. I primi saggi e quelli immediatamente susseguiti davan prova della eletta consistenza del suo temperamento di creatore, non soltanto tale ma anche adusato all’esercizio della critica da cui deduceva coscienze e precisioni dei valori poi chiaramente riflessi nella pittura. Nel 1910 potè essere chiamato tra gli artisti italiani rappresentativi di quel tempo all’esposizione mondiale di Bruxelles. Si collocava con nettezza in una sua sfera di luce, e poco di poi iniziava la sua partecipazione alla esposizione Biennale di Venezia. Era il 1912 e fino al 1924 Viviani fu assiduo alla grande assise internazionale dell’arte. Il suo nome era degno di farsi notare e ricordare e anche nei seguenti svolgimenti dell’arte. Nelle mutazioni ed esperienze e prove stilistiche che si affollarono durante il ventennio successivo, la sua personalità non andò travolta. Le sue opere, pur confuse tra le centinaia di altre nelle grandi mostre collettive, non hanno mancato di esercitare sull’occhio dell’intenditore una suggestione precisa, un fascino particolare. Come dire, che nel volgere di tante manifestazioni diverse e discordanti, Viviani era rimasto fedele a se stesso pur svolgendosi nello spazio e nel tempo. Fedele al suo credo estetico, alle ragioni romantiche della sua personalità. Ricordava Carlo Carrà in un suo articolo critico su “l’Ambrosiano” che nella presentazione della sua mostra personale ordinata nel 1937 a Milano, Viviani aveva scritto, a mo’ di confessione orgogliosa, “romantico son nato e romantico morirò’”. Non è difficile infatti avvedersi che la sostanziale coerenza del suo artistico operare rampolla appunto da cotesto sottile romanticismo che non è soltanto dell’espressione ma proprio attiene all’intimo animo creativo dell’artista, rampolla dal più segreto e profondo “io”. Viviani si ritrova dunque bene e si ritrova tutto in questa mostra che dicevamo riassuntiva nel senso che in essa si profila chiaro lo svolgimento coerente e fedele dell’artista, tanto impegnato a superarsi e spremere da se nuove energie stilistiche e altrettanto pensoso di non smentire le ragioni estetiche del suo nobile e operoso ieri. D’altronde quando pur si sarà riaffermata l’indole primieramente romantica e sognatrice della sua personalità, un’ulteriore definizione critica dell’artista non sarà del tutto agevole. Egli ci appare in ogni caso come un pittore nel quale le visioni della natura, accendendo l’estro di luci e di trasfiguranti fantasie, tendono a stabilirsi in una nuova realtà d’arte che è verità sognata. Le ampie marine, le verdeggianti distese pratili, i canali di Venezia in certo modo ingrandiscono e si transustanziano in cotesta particolare vestizione di forma e colore che è lo stile dell’artista. Stile che ripete la propria nobiltà dalle lontane origini di cui si diceva perché fino nei tempi distanti Viviani creava l’arte sua a quel modo, accordando le ragioni della tecnica e dei fatti plastici alle superiori esigenze d’una fantasia del tutto lirica, lieve e solenne vento dello spirito che piega la realtà alla sua dolce violenza e così ondeggiante la consegna a una nuova dignità dentro cui potrà vivere nel tempo al di là dell’attimo che ha generato l’emozione estetica. In questa mostra si pregiano ancora le suggestive marine, intonate a un’atmosfera cupa e profonda, grave di mistero, su cui le vele adriatiche ondeggiano lievi come portate da un sàpido flusso romantico. Opere vive d’attrazione e fascino che non hanno smarrito il loro valore nel tempo, anzi sembrano riemergere da quelle penombre di passato, arse da interni fuochi. Le opere recenti d’altronde visibilmente danno la mano, seppure con accenti esterni diversi, a quelle più distanti. E ve ne sono di quelle che impegnano l’attenzione di chi guarda per le egregie prerogative pittoriche in cui sono tessute, come per esempio le poderose nature morte composte con superiore gusto, con una possessione piena del disegno, con una valida energia che fissa il segno e scioglie il colore calibrandoli esattamente nell’assieme del quadro. E’ facile scorgere come, ad onta della non spenta simpatia per i suoi atteggiamenti trascorsi, Viviani non sia insensibile allo svolgimento di talune tendenze moderne da lui intelligentemente riassorbite e assimilate. Le nature morte di cui si diceva ne danno la prova con quei loro toni disciolti e diremmo acquei che tendono ad accostarsi a certe tonalità temperate e basse che sono prerogativa di taluni maestri della pittura moderna. Ma poi Viviani riafferma la individuale originalità del proprio mondo creativo nella pienezza dei paesaggi, taluno dei quali si slarga e distende in ampiezza e si infoca di splendidezze tonali come la vasta “Spiaggia maremmana”, in cui il sentimento della natura si accampa vittorioso, come “Presso il mare”, aristocratica sinfonia di tonalità grigie e segretamente ammantate di intimi ori in cui la natura e la espressione dell’elemento umano si fondono e avvincono in vicendevole lucòre di bellezza. Qui l’impeto pittorico si afferma non soltanto con quella sciolta vena, con quella svelta e sàpida grazia e virtù del pennelleggiare con cui Viviani abborda e risolve tante opere anche minori pur bloccate con felicità, ma per di più con un vigore architettonico che domina il soggetto e lo stabilisce in accapi di sostanziale costruttività. Allo stesso modo quell’elemento di aperta fantasia, che è uno dei dati romantici tipici della pittura di Viviani, riaffiora e si afferma in certune vedute di Venezia sentite e rese con quello spirito d’investigazione che è tipico della vera pittura e sa tradurre nel segno e nel colore l’arcana voce delle lagune e le molteplici malie veneziane. Assieme ai valori tipici e ben riconoscibili è quello che affiora da questa mostra complessa, interessante, rivelatrice d’una netta individualità in cui l’artista scaltrito e valido riafferma stile e personalità superate in un vibrante palpito di verità attuale. F.to DINO BONARDI

GUIDO MARANGONI – edizioni Crimella-Castagneri-Zeni Milano 1922

– Dalla MONOGRAFIA “RAOUL VIVIANI” di Guido Marangoni ( ediz. Crimella-Castagneri-Zani –Milano) – Lo stesso testo è stato riportato sulla Rivista LA Cultura Moderna (Luglio 1922) – RAUL VIVIANI – (Galleria Pesaro) L’arte è il vero attraverso un temperamento. E la pittura di Raul Viviani mi appare – nella varia, multanime ed ormai completa maturità delle sue espressioni – come una nuova ed eloquente dimostrazione della verità contenuta nel vecchio apoftegma zoliano. Tutto è attinto alla vita circostante ed all’aspetto reale della natura quanto forma elemento del quadro: cieli incantati nella delicatezza degli azzurri solcati da bianche nuvole leggere ed errabonde, acque sognanti in perplessità nella calma delle lagune sotto le vaghe penombre dormentate sugli altipiani alpini nel tenace abbracciamento dei gruppi folti di alberi protettori, visioni di paesi e di figure in una dolce tenuità di trasparenze e di luci in tono minore….Tutto conserva la rimembranza e la illusione del vero e tutto è trasformato profondamente nella sensazione del pittore trasfusa piena ed inebriata sulla tela. E’ ancora il vero, ma è il vero come lo vede e come lo sente l’artista entro le vibrazioni della sua anima. E qui mi si affaccia alla memoria .- imponendomi l’obbligo uggioso di una seconda citazione – un altro apoftegma celeberrimo. Quello dei De Goncourt: L’ARTE E’ IL VERO PIU’ POESIA. Ciò che al vero si assomma o si sostituisce nella pittura del Viviani è quell’empito di sentimento lirico e di elevazione spirituale che la contemplazione della natura gli suscita in cuore: le immagini si fondono e si confondono nella piena dell’esaltazione emotiva, i contorni delle cose si perdono nell’indeterminatezza suggestiva della sfumatura, il colore si attenua nella delicata armonia dei toni, la visione del reale si eleva in un’atmosfera di sogno…..Si dice che i grandi oratori dell’antichità usassero – avanti di iniziare le loro classiche concioni – di chiedere ispirazioni agli accordi dell’arpa. Ed io sono tentato di credere che il Viviani avanti di brandire il suo pennello usi di mettere la sua anima in tumulto mediante una forte sensazione musicale, tanta è l’onda di intima passione che invade e caratterizza la sua pittura. Ho la convinzione antica che il Viviani sia cresciuto in una famiglia di musicisti e che musicali siano state le sue primissime emozioni d’arte. Non gli ho mai chiesto se questa mia impressione sia suffragata dai fatti. Se mi rispondesse negativamente mi troverei nella dolorosa necessità di mettere in dubbio la sua parola o per lo meno la fedeltà della sua memoria. E’ tanta e così schietta e sottile la musicalità dei suoi dipinti che le sue prime sensazioni d’arte infantili devono essere state musicali. Certo è musicale l’atteggiamento del suo spirito davanti alla bellezza della natura e musicale è il linguaggio ond’egli interpreta ed esprime la sua sensazione sebbene abbia scelto la tavolozza e non il violino o il pianoforte come mezzo di estrinsecazione del proprio intimo commovimento..... Qualche maligno lettore si meraviglierà forse di questo mio giudizio così recisamente favorevole al Viviani e si accingerà anche – nella maliziosa intenzione di cogliermi in contraddizione – a rintracciare nelle riviste di dieci anni addietro qualche altro mio giudizio diametralmente opposto. Il maligno lettore è cortesemente invitato a risparmiarsi la fatica. La contraddizione è ammessa dall’imputato con candida lealtà, poiché a giustificarla gli basta una constatazione: il suo giudizio doveva necessariamente, doverosamente mutarsi dappoichè in modo così completo e radicale è mutata in questi ultimi anni l’arte di Raoul Viviani. Quand’egli – come tutti i giovani ansiosi di battaglia e di rapida notorietà – si abbandonava a frenesie di originalità preconcetta senza intimità di convinzione, l’originalità fine a sé stessa ch’io reputo uggiosa nell’arte quanto e più del tradizionalismo piatto, banale ed accademico e quindi insulso e scocciatore ed incapace persino di danni, scrissi allora a proposito dei quadri di Viviani parole aspre e severe. Ai giovani, quando si ritengono capaci di ritrovare se stessi attraverso i traviamenti momentanei e di raggiungere alte mete d’arte, è d’uopo parlare chiaro e schietto. Quando il Viviani seppelliva le sue ineffabili visioni di sogno dietro una spessa nevicata di pennellate a larghe falde policrome, in uno sfarfallio di virgole iridescenti e costringeva la sua ispirazione giovanile alla certosina esercitazione tecnica asservendola alle ricette di un divisionismo malinteso, era onesta l’insurrezione contro quel cattivo indirizzo del pittore. Ed io ricordo senza rimorso (anzi!) di aver bruscamente condannato quelle tele contro le quali il pittore sembrava essersi avventato tempestandole a colpi di coltello, per costellarle di bottoniere inestetiche appesantendo le composizioni sotto il tormento di una fattura caliginosa, greve, ed illogica. Ma il dire la verità non è il mezzo migliore soprattutto in arte e soprattutto quando si dice (la verità stampandola su pei giornali) per crearsi delle simpatie e conservarsi delle amicizie. La verità serve spesso a chi lealmente viene detta e danneggia sempre chi la dice poiché lo espone ai risentimenti di chi riceve – sia pure inconsapevolmente – un beneficio della altrui sincerità. Però lo scrittore sincero ha qualche volta la grande, la suprema soddisfazione di vedere col tempo riconosciuta l’opportunità e la esattezza delle proprie critiche. Ed io ebbi in questi ultimi anni la gioia profonda di vedere la pittura di Raoul Viviani assurgere poco per volta dalle tenebre delle complicate ricerche tecniche e divincolarsi dalle certosine esercitazioni per assurgere a nuova chiarità limpida e personale, liberata da tutto il ciarpame delle teorie pseudo-avventuriste che le inceppavano il volo alla ricerca di un linguaggio pittoresco degno dell’estro gagliardo e del fine sentimento lirico do Raoul Viviani. Ed eccolo finalmente, liberato nello spirito e rinnovato nella ormai conquistata libertà di espressione, nella recente Mostra della Galleria Pesaro dove solo un quadro o due di data lontana, sembrano commemorare la defunta maniera pedestremente fedele al tramontato pointellisme. Ch’egli celebri nelle sue pitture la gloria fulgida della marina ligure o dondoli la pace sonnolenta delle “peate” nel Canale della Giudecca, o renda la solitudine verde degli orti di Murano, il silenzio claustrale del Torcello, o le misteriose penombre della Piazza Fontana di sera, la solitudine agreste di Valganna, o la quiete raccolta del “Villaggio dei Pescatori”, la solennità della “Campagna Lombarda”, o la festevolezza arguta dei ricordi di Toscana, SEMPRE ARDITAMENTE PERSONALE E SUA E’ LA FORMA DO ESPRESSIONE RAGGIUNTA DAL PITTORE. A volte, nell’evocare uno stradone inondato di sole egli ricorda vagamente i macchiaiuoli suoi compaesani (poiché Raoul Viviani è nato a Firenze nel 1883, benchè sia venuto bimbo ancora a Milano), più spesso certe evanescenze languide di spiritualità ci fanno pensare alle soavità penetranti del Fontanesi: ma sono fuggevoli ricordi, reminiscenze lontane chiuse nel palpito sicuro e robusto d’una personalità ormai originale e sicura di se stessa. E soprattutto personale e caratteristico è l’amor del Viviani per l’acqua. Egli la vuole protagonista di quasi tutte le sue tele con un amore costante e un culto religioso: la scruta in tutti i mobili riflessi, la analizza placida e stagnante nelle impressioni di laguna, la muove fresca, scintillante, fuggitiva nel letto dei torrentelli di montagna, la insegue nel corso maestoso e solenne dei fiumi, ne ascolta il fremito ed il ruggito iracondo nelle furie del mare; la incastona sempre come una gemma preziosa nel primo piano delle sue tele di paesaggio; ora specchio nel grave “Faro di Rimini”, ora di tronchi sottili e dondolanti sulle “Sponde del Ticino” ora canora e rapida nel “Lambro” a Monza, ora foscamente triste e melanconica come nelle “Fantasie Veneziane”. E il successo non è mancato alla pittura del Viviani non appena essa potè uscire dalle nebbie del tentativo giovanile e dalle dure meticolosità formali. Il lento ma progressivo affinarsi della sua pittura iniziato a Bruxelles nel 1910 cogli “Ippocastani” e confermato colla “Parabola” alla biennale di Venezia nel 1912, già si rivelava vicino alla sicura vittoria nella Mostra individuale ordinata a Rimini nel 1913 a cura della Dante Alighieri e rimeritata con una medaglia del Ministero della Istruzione Pubblica. E una nuova mostra personale al Lyceum di Milano un anno dopo confortava e sorreggeva le speranze degli amici veggenti e non facili all’adulazione e procurava al giovane artista, colle lodi non più condizionate dalla critica, numerosissime vendite. Frattanto colle maggiori esposizioni italiane accolsero le opere del Viviani quelle dell’estero, da Monaco a Francoforte, da Vienna a Barcellona. Ed una vasta tela, la Spiaggia di Cornigliano – mirabile per il respiro e la prospettiva - entrava a rappresentare nobilmente il proprio autore nella Galleria d’arte Moderna della città di Milano. Lo scapigliato ex-allievo di Brera che aveva troncati gli studi dopo due anni e s’era sottratto presto ai consigli paterni e affettuosi di Gigi Conconi per seguire unicamente i semi della propria natura e la voca che gli dettava dentro prepotente ed imperiosa, ne ha adunque percorsa della strada in questi ultimissimi anni! . E molta ne percorrerà ancora, audace e spavaldo, verso gloria certa e la luce del suo sogno d’arte. F.to GUIDO MARANGONI

PATA – Piccola Monografia a cura del prof. Pata – anni 40

- Anni 40 – Piccola Monografia a cura del prof. PATA
Raul Viviani che visse e vive nell’atmosfera del pittoricismo poetico di Segantini, Grubicy, Morbelli, Pelizza da Volpedo, si serve d’ogni forma di segno, quelli necessari ad ottenere delle vibrazioni, che non saprei chiamare se non alternate, ed efficacissime a produrre la illusione più adeguata e perfetta. Lavori ad olio o a pastello riesce così a scomporre, a disintegrare la veste esteriore dei corpi, per ricomporla in massa coloristica, di maschia sobrietà, e offre il quadro di pesi e volumi dietro cortine e filtri liquidi, acquei, talvolta quasi gocciolanti. Lavori ad acquarello, ed eccolo a tingere e a sovrapporre i toni, per ottenere robustezza e solidità lasciando da parte la tecnica inglese, della macchia trasparente, alla prima, colla goccia ai piedi, divenuta classica anche da noi e tenuta in gran conto da Sala, Graffonara, Ricci, Raimondi e così via. Gli è che mi pare padrone d’ogni tecnica, e l’adatta come mezzo opportuno al tema e al risultato, rivelandosi subito un contenutista lirico; che all’occasione gioca di arditi spostamenti architettonici e prospettici, e imposta sagome di figura e maschere umane, sottoponendo l’anatomia e le proporzioni al principio plastico espressivo, tutto riducendo a blocco compatto, sicchè pare pensi, sul dettato di Michelangelo, che tanto più vale la pittura, quanto più assomigli a scultura. Raul Viviani riassume eredità toscane, valori del modernismo e della attualità lombarda in genere ed ambrosiana in speciem cultura vasta acquisita nel suo peregrinare pel mondo, coll’osservazione acuta, la memoria felice, l’assimilazione potente. Molte opere sue, e parte di quelle in mostra qui, mi inducono a considerarlo il poeta dell’autunno. Una sottile malinconia, un lento patetico sorregge la sua produzione. Egli è per natura tendente alla spazialità; anzi alla vastità. Nei suoi paesi all’acquarello si sorprende tanto cielo di cobalto denso, che fa occhio da limiti remoti, dietro nuvolaglia ammassata e densa di vapori; inseguite i piani nella lontananza, nella solitudine, e vi perdete in essa. Idea e frase diventano un armonico immediato. Il suo quadro è ben ponderato, più di quello che può non apparire; è sottoposto ad un rigore logico, che rigetta l’artificio volgare e disciplina l’ispirazione. F.to PROF PATA

B.C. – RAUL VIVIANI NELLE ARTI FIGURATIVE su Giornale degli Artisti dell’11 febbraio 1929

- Se è vero che l’arte (specialmente la pittura) è la rappresentazione del vero attraverso il temperamento dell’artista, poche volte, come in Viviani, questo semplice assioma trova riscontro di perfetta precisione. I suoi quadri sono una riproduzione di tutto quanto nella natura può impressionare l’artista ed attirarne l’attenzione anche quando questi è comodamente al lavoro davanti ai vari cavalletti nel suo ampio studio, in alto, tra l’affascinante poesia di tutti. Anche allora il cielo, le case, i canali, il mare, le paranze vaganti sulla laguna, o le lunghe solitarie strade di campagna sono davanti alla sua fantasia; e lo sarebbero sempre, pur se non fossero di ausilio e di prezioso richiamo per l’artista, i bozzetti vibranti di vita, ch’egli butta giù, strappando alla visione polioramica un attimo di vita. Solo che tra la visione del vero e il quadro, in R. Viviani, come in tutti i pittori di razza c’è di mezzo quel tanto di poesia, quel tanto di suo, che costituiscono il suo temperamento. Un non so che di indefinito, di impreciso, che si riflette nell’opera d’arte e che forma quasi “la marca di fabbrica”. Perché il Viviani è fedele alla sua maniera: l’ha trovata e la segue fedelmente. Ha avuto, è vero, come parecchi altri un momento di dubbio: dubbi od esuberanze di gioventù più o meno discutibili durante i quali pareva che il Viviani dovesse decisamente fissarsi sul divisionismo, puntellinismo, o linellismo che dir si voglia, imperante allora. Il pellicano, quadro, che a parte di qualche difetto di proporzione ha buonissimi pregi, è il miglior frutto di quell’epoca sbarazzina, quasi violenta del giovine pittore che i critici del resto avevano preso di mira, perché credevano (e non avevano torto!) che un ingegno di indiscutibile forza non doveva disperdersi inutilmente in false parvenze di vero. Il Viviani stesso si è accorto dell’errore, e con un buon colpo di timone ha virato di bordo e s’è messo sulla sua strada. E messosi sulla strada sua non l’ha più abbandonata, perché è quella che l’ha portato al primo successo, è quella che glielo continua, attirandogli le simpatie di quanti amano ancora la pittura un poco blanda, carezzevole, quasi di sogno lieto com’è quella di Viviani . Sempre sorridente, affabile, infaticabile, dipinge come parla serenamente, personalmente, anche se un guizzo dei Macchiaioli toscani è in certe sue tele, anche se un riflesso di Fontanesi è in altre; ma sempre nobilmente, qualunque sia la tecnica, dall’acquarello alla tempera, dal pastello ai monotipi colorati, nei quali ha profuso molta fantasia, molta abilità in una smagliante tavolozza di colori. Ma soprattutto il Viviani ama l’acqua, canali, fiumi, laghi, mare, nelle ore del mattino, nel sole, nell’ombra notturna, sempre, che egli conosce profondamente e che è nove volte su dieci, protagonista dei suoi quadri. Artista di razza. Raoul Viviani, e di buona razza, ripeto, che produce bei quadri e sa farsi amare; perché in lui l’uomo non è in discordia col pittore, anzi le due personalità si fondono in mirabile armonia. F.to B. C.